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Aprire varchi attraverso il surreale          Sito ufficiale Massimo Colonna - Scrittore

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Recensioni 

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Analisi di testi a cura di Concetta Di Mezza, Esmeralda Moretti e Silvia Fadda  

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L'inconfondibile tristezza della torta al limone

di Aimee Bender

di Silvia Fadda

La coscienza e la consapevolezza dell’organismo di raccogliere gli stimoli provenienti dal mondo esterno passa attraverso gli organi di senso. Fin dalla nascita accumuliamo esperienze sensoriali indispensabili per muoverci nel mondo che arricchiscono e formano la nostra identità. Una musica che arriva dal passato ricrea nella nostra mente precisi episodi della nostra vita, facendo emergere particolari che non pensavamo neanche di aver vissuto. Può succedere che un ricordo uditivo risvegli anche quello visivo che si trascina dietro tutti gli altri sensi. Inevitabilmente questo breve viaggio sensoriale nel mondo della memoria ha la capacità di modificare il nostro stato d’animo andando a toccare punti della nostra sensibilità più profonda e risvegliando gli stessi sentimenti di allora. Se il ricordo è piacevole si allontanerà lasciando una scia di affetto e nostalgia, al contrario un brutto ricordo lascerà una sensazione di inquietudine, rimpianto o addirittura rabbia. Quando uno dei sensi smette di funzionare, la natura perfetta nella sua imperfezione, acuisce i restanti organi, la cui attività va a sopperire quella mancante. Ancora può succedere che solo uno di questi organi di senso sia più sviluppato degli altri e che conferisca un dono a chi ha questa capacità. Aimee Bender si focalizza su questa particolarità e costruisce una storia dai contorni surreali. E’ la stessa protagonista, Rose, a raccontarci la sua vicenda.

 

Durante un assolato pomeriggio di inizio primavera, la piccola Rose assiste la mamma che prepara la torta per il suo nono compleanno. La scena si svolge in una villetta di una nota zona di Los Angeles, in un indefinito anno di fine ‘900. La famiglia di Rose rientra nei canoni della famiglia tradizionale, ha un fratello poco più grande di lei e un padre avvocato. Le loro vite si svolgono in apparenza tranquillamente, sui binari di una routine consolidata. Rimasta sola in cucina a sorvegliare la torta in forno, mentre la mamma combatte contro il mal di testa, Rose si abbandona a pensieri disordinati che ruotano attorno alla sua famiglia, e così facendo definisce i contorni dei componenti. Il padre, uomo con i piedi piantati per terra e “sulla mascella tatuata la parola Capofamiglia”, di indole allegra e gioviale, metodica e serafica, aveva conseguito la laurea grazie alla collaborazione della moglie Lane, che aveva caricato sulle sue giovani spalle la gestione della casa, dei figli piccoli e aveva svolto un lavoro d’ufficio per niente stimolante. Il fratello Joseph è un adolescente schivo, che si muove nella storia come un fantasma, manifestandosi solo quando qualcosa colpisce la sua area di interesse. Rose tira fuori la torta dal forno e il profumo di limone e cioccolato avvolge la cucina, ma la rassicurante fragranza emana un retrogusto acre e spiacevole. Un’inquietudine appena percepita accompagna i suoi timidi gesti mentre taglia una fetta di torta e l’assaggia. Il sapore le esplode in bocca con una potenza emotiva che la lascia fortemente turbata. La ricetta è stata eseguita in maniera ineccepibile, gli ingredienti sono ben amalgamati, nonostante fosse il prima dolce che la mamma avesse mai preparato. Dapprima in modo vago, poi sempre più intensamente avverte i sentimenti di sua madre. Tutta la sua tristezza, le frustrazioni, le disillusioni che le si agitano dentro e che con destrezza materna riesce a celare dietro un sorriso. Il dolce come fosse un iniziazione le aprirà il mondo dei sentimenti trasforma ogni morso di cibo della sua vita in un viaggio dentro le emozioni e gli stati d’animo di chi lo ha preparato. E’ assediata da questa tempesta emotiva della quale non riesce e non vuole parlare, tranne che con George, un caro amico di suo fratello. Resa vulnerabile da questo dono, Rose ci racconta, in modo lucido , ma con la tenerezza e la semplicità della sua età, la sua vita costellata di esperienze alimentari ogni volta sconvolgenti. Solo il cibo dei distributori automatici di merendine le daranno il vero ristoro, un’oasi priva di elementi umani.

 

Con l’avanzare della storia il suo sguardo si fa adulto e i fili della narrazione si dipanano svelando segreti carichi di ombre. La storia procede con perfetto equilibrio su un piano reale, così palpabile nella descrizione dettagliata della lenta trasformazione della quotidianità familiare, illumina ogni gesto, ogni oggetto e tutte le sfumature di ogni personaggio. Le vediamo, sentiamo gli odori e avvertiamo quella lieve inquietudine che ci ha preso per mano fin dalle prime parole e ci fa scivolare nel piano del surreale con profumo fiabesco, un sentore che rimanda alle storie di Tim Robbins o di Neil Gaiman. La metafora di Rose e della sua estrema sensibilità offre una prospettiva sul cibo che apre a profonde considerazioni sul modo di percepire il mondo. Un morso veloce, un’annusata distratta e perdiamo di vista l’elemento umano troppo intriso di sapori dolorosi, gli stessi che cerchiamo di cancellare dalla nostra bocca.

Gli sdraiati

di Michele Serra

sdraiati

di Concetta Di Mezza

Prima pubblicazione: 2013
Autore: Michele Serra
Genere: Narrativa
Lingua originale: Italiano

Casa editrice: Feltrinelli

 

Che cos’è un padre? L’archetipo in cui un figlio si confronta, secondo Kafka. La figura simbolica del Capitalismo nel principio nell’Obbedienza. Una definizione di psicanalisi di Freud o di Lacan. Ma ogni figlio risponderebbe a questa domanda, che è alle origini del Conflitto Generazionale, definendo suo padre “la legge”, la figura mitica da superare, il despota che impone un mondo di regole da sradicare. Tuttavia, i conflitti esistono perché ci sono almeno due parti che si oppongono l’una all’altra; e forse le domande da cui il Conflitto Generazionale nasce sono due. La prima è quella su menzionata; la seconda, opposta e identica, è: che cos’è un figlio? Un prolungamento della vita di suo padre? Della sua memoria? Un uomo da plasmare, a partire dalla carne e dalle ossa, come sé stesso, ma magari senza gli stessi difetti, forse con addirittura più pregi?
 

Michele Serra racconta – in una scrittura non lineare, impregnata di humour – il Conflitto Generazionale, visto con gli occhi di un padre, che guarda suo figlio sdraiato sul divano, pervaso da un astruso senso di impotenza e tenerezza, di inadeguatezza, scaturito dalla realizzazione dei propri limiti all'esercizio della genitorialità. Protagonista e narratore del romanzo è un borghese di sinistra di mezza età, un padre single, un genitore separato, che si acciglia e si dispera dinanzi all’indolenza e all’apatia del suo figlio adolescente, preoccupato per la piega che la sua vita sta prendendo. Non riuscendo più a trovare un canale di comunicazione con suo figlio, non avendo idea di come raggiungerlo nell’universo in cui si rintana dopo essersi messo le cuffie nelle orecchie, prova a conoscerlo attraverso le persone che fanno parte della sua vita - gli amici, gli insegnanti, il tatuatore -, restando però sconcertato dalla scoperta di aspetti della sua personalità che ignora e fatica a comprendere. Tuttavia, non lo giudica, lo guarda, piuttosto, come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa su cui non si può imporre autorità. Invece di rimproverarlo, appunta nella sua mente le parole di un mitico romanzo che racconta di una guerra tra Vecchi e Giovani, mascherandosi nel condottiero dei Vecchi, Brenno Alzheimer, che invita le vecchie generazioni a non odiare la giovinezza, a non rifiutare i giri della ruota della vita e degli ingranaggi della macchina del tempo, ad abbassare le armi in questa guerra sbagliata. Infine, come estremo tentativo di recuperare un rapporto costruttivo con suo figlio, gli propone un'escursione al Colle della Nasca,  un luogo significativo della sua gioventù, un’esperienza che lui stesso aveva vissuto con suo padre, pregandolo, minacciandolo, raccontandogli storie di fantasia, invano, per convincerlo ad accettare. Solo quando il padre ha smesso di sperare, il figlio accetta di passeggiare in montagna con lui: nella prima parte della salita il giovane arranca, poi il padre si distrae, perso nei suoi pensieri, e, quando torna in sé, si accorge che il figlio l'ha sopravanzato, sollevandosi alla realizzazione che troverà la sua strada nel mondo.

 

Michele Serra scrive di una angoscia diffusa nelle famiglie, ma anche, più in generale, nei meandri della nostra Società. I padri si domandano se sono ancora in possesso di qualche sorta di autorità, se sono ancora le loro parole quelle che i figli vogliono ascoltare, se sono le loro regole che i giovani seguono. Perché? Perché i padri di questa generazione si trovano dinanzi a ragazzi che non hanno paura di loro, ma che nemmeno hanno voglia di ribellarsi alla loro autorità. Sono figli che generano ansia, quando non rispondono al telefono, perché amano la negligenza, l’entropia del mondo: non per loro pigrizia, ma per l’invadenza del genitore. Sono bambini che sembrano non voler diventare adulti, troppo comodi in una vita di ovatta. Sono giovani che dormono, mentre i Vecchi lavorano, che preferiscono tatuarsi storie sulla pelle, che imprimere nel cuore le antiche tradizioni. Sono parenti sconosciuti, la cui esistenza è inafferrabile, che, seppur in possesso di metà del loro DNA, si conoscono poco e male. Sono persone che hanno appena cominciato a vivere e che, dovendo logicamente avere più tempo per finire, si lasciano sopraffare dal Tempo. Tuttavia, lo scrittore non risparmia niente nemmeno ai padri, che definisce, con comicità, “dopopadri”, perché relegano le colpe dei figli tra i loro vizi, perché non sono più in grado di trasmettere, forse per impotenza, forse per timore del fallimento – ma pur fallendo – un ordine ben strutturato e codificato, perché non rimproverano i figli per paura di scoprire che la loro amorevole autorità ha perso per questi ogni valore. Sono genitori che non hanno coscienza, ma solo una sensazione degli errori che commettono. Sono persone che ascoltano il silenzio dei loro figli e una piccola voce interiore che dice loro che qualcosa va male, ma continuano ad andare avanti, e la ignorano, sbagliando quasi coscienti, perché immunizzati contro l’azione. “Non si è mai visto niente di simile”, scrive. Ma non c’è moralismo nelle sue parole. Non è un Bene. Non è un Male. “È solo l’Evoluzione della Specie” – di quale specie si tratti, però, non si ha idea.

 

Gli Sdraiati è un romanzo che racconta di amore, rabbia, melanconia. Racconta di comicità, di avventura, di strazianti conflitti interiori. Racconta di satire, di dilemmi etici, di orgoglio morale. Racconta di quanto il mondo dei figli sia ignoto ai padri, di quanto altrettanto sia vero il contrario. Racconta degli sdraiati, delle persone che sono sveglie quando il resto del mondo dorme, che sono di fronte a noi, ma in realtà sono anche altrove, mentre leggono un libro, guardano la tv e ascoltano la musica, tutto insieme. Gli Sdraiati è un’opera commemorativa dei dopopadri, che vedono ciò che gli sdraiati non possono più vedere, ignari di cosa ci sia, però, di nuovo da guardare, e timorosi di condividere i loro paesaggi, poiché l’orgoglio dei giovani potrebbe renderli disgustosi. Gli Sdraiati, forse, però, è anche una speranza, che il tentativo disperato di una passeggiata in montagna non sia invano a mettere fine al conflitto.
 

Commento - I figli si guardano allo specchio, cercando di trovare un senso nel loro volto, di capire le trasformazioni che hanno accumulato dentro di sé sulla strada verso la vita adulta. Prima vedono sé stessi, i meccanismi del loro corpo, la loro anima che si rivela nei tratti dei loro visi. Poi cominciano a intravedere le somiglianze con i loro genitori. Prima le amano: ogni figlio desidera essere come suo padre, raggiungere la stessa perfezione. Poi le odiano: allo stesso tempo, ogni figlio, nel profondo, vuole “superare suo padre”. Perciò comincia a guardare il suo riflesso con ostinazione per cancellare ciò che non gli appartiene, per non sentirsi solo il prolungamento della vita del suo procreatore, nel disperato tentativo di vedere chi è realmente. Intanto i genitori guardano i propri figli e vedono una generazione disillusa, che ha perso la capacità di stupirsi: dicono che non hanno idea di come ribellarsi, ma forse, per uno strano paradosso, la loro ribellione è proprio non farlo; dicono che non hanno ideali, ma forse il silenzio dei loro padri non li rassicura che sono importanti e decisivi per altre generazioni, sia passate che future; impongono loro delle regole, vogliono insegnare loro ciò che hanno amato del mondo perché lo amino a loro volta, ma l’unico scopo dei giovani è smontare quelle regole e crearne delle proprie, perché ciò che li incanta non è il mondo che hanno ricevuto, ma quello che possono lasciare. La noncuranza dei figli, che può sembrare inettitudine, non è altro che un profondo desiderio di dire “Ora, ci sono io” oppure “Lascia che sia io a decidere cosa voglio dalla mia vita. Ciò che Michele Serra definisce “Evoluzione della Specie” è un processo di crescita: ogni uomo è prima autoreferenziale, poi imita suo padre e alla fine, quando il modello si esaurisce, rompe gli schemi per trovare la propria identità e realizzare qualcosa di diverso – non nuovo, perché tutto è già stato inventato – con ciò che ha appreso. Pertanto, credo che Gli Sdraiati riveli che il Conflitto Generazionale non è una guerra che si vince con le armi, ma con l’amore: i padri devono amare la vita dei propri figli, soprattutto quando la loro inizia la fase verso l’inesorabile fine, perché tutto ha un suo momento e prima o dopo questo nulla prospera.

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